26 ottobre 2010, ore 14:00

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Matteo Salvatore, immagini al tratto dalla raccolta Le quattro stagioni del Gargano, Amico, 1973

Una domanda simile può sembrare mal posta se non inutile. Non sappiamo tutti che il Canto popolare è il canto della nostra terra, del nostro vicinato, quello in cui i nostri antenati si sono identificati (e noi con loro), l'espressione più alta della nostra cultura contadina e artigiana, quella che marca decisamente la nostra identità etnica e di cui andiamo fieri? E dove può andare ormai il Canto popolare, se quell'habitat socio/economico/culturale si è definitivamente dissolto?

Ma se c'è una convinzione diffusa fra gli etnomusicologi questa riguarda il carattere diciamo così meticcio del Canto popolare. E non solo per il contenuto dei testi spesso variabili a seconda delle diverse tradizioni orali, non solo per le diverse connotazioni espressive degli stessi testi, ma anche e soprattutto per le innumerevoli influenze che le melodie hanno subito in un contesto geografico che ha visto succedersi e rimpiazzarsi diverse popolazioni e culture nel corso di millenni.

Il Canto popolare è una realtà mutevole, inafferrabile, che veste la lingua o il dialetto del posto e del momento, ma rimanda a quanto di profondo l'uomo ha sperimentato nella sua lunga storia. È la vena tenera del tronco duro dell'esistenza faticosa dell'umanità. È da sempre il canto dei vinti e dei sottostanti (basti pensare al biblico Super Flumina Babilonis, a Lu Soprastante o a Lu polverone di Matteo Salvatore) che mai si trasforma in canto dei vincitori. Sarà udibile finché ci saranno vinti che anelano alla liberazione e alla giustizia, per poi inabissarsi come un lento fiume carsico e riapparire lì dove nuove fatiche saranno da sostenere e alleviare, nuove gioie da partecipare e nuove lacrime da asciugare.
È nostro il canto, nella misura e nei limiti in cui è nostra l'acqua che irriga i nostri campi, disseta l'arsura delle nostre fatiche e lava le ferite della nostra anima. E, come l'acqua, porta con se tutti i frammenti di memoria che conserva e trasmette alla terra su cui si riversa. Ma il ciclo dell'acqua è quanto di più affascinante e inafferrabile conosciamo; guai a fermarne il corso per arrestarla in un luogo ristretto e angusto: diventa putrida e malsana.

Mi sono accostato al Canto popolare materano con lo spirito di chi ha visto affiorare il fiume in superficie e ne disegna liberamente i tratti, privilegiando di volta in volta le espressioni tenere e appassionate, o il lamento lenitivo della fatica e del dolore, o l'allegria sfrenata ammiccante e canzonatoria di eventi festivi. Con l'accortezza di usare un linguaggio flessibile e moderatamente avanzato, adattandolo alle caratteristiche di un coro, I Cantori Materani, che, per essere amatoriale, ha dimostrato di possedere e saper usare tutte le risorse necessarie per sostenere le asperità di una partitura non certo facile.
È stato un lavoro lungo e faticoso quanto affascinante a produrre una partitura che mi auguro sappia entrare nel ciclo di quella corrente vitale e feconda che è la musica popolare per poter ancora irrigare e dissodare terreni che cominciano gradualmente a inaridirsi.

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Damiano D'Ambrosio, Sassincanto, Associazione Corale Cantori Materani, 2010

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