
C'è un luogo comune che accompagna solitamente il dibattito sulla banda musicale e che, come tutti i luoghi comuni, ha la sua parte di verità. L'assunto è che la banda ha svolto una rilevante funzione sociale col portare la musica colta nei luoghi e nelle comunità meno dotate di strutture e disponibilità ad accoglierla. Ed è certamente vero quello che si dice quando si pensa alla penuria di teatri, orchestre e mezzi finanziari che ha caratterizzato e ancora caratterizza purtroppo un buon 80% del territorio italiano, dislocato prevalentemente al Sud, dove però i complessi bandistici hanno dato e danno il meglio di sé, divenendo spesso modello per altre esperienze in campo nazionale ed internazionale.
Questo luogo comune sulla funzione sociale della banda, però, sottende involontariamente una concezione un po' limitante del ruolo e della qualità del “prodotto banda”, quasi che si tratti di un ruolo di supplenza e perciò qualitativamente inferiore ai complessi orchestrali (da qui la diffidenza ingiustificata e ingiustificabile dei Conservatori di Musica, fino a qualche anno fa, nei confronti delle bande – ricordo che quando quasi trent'anni fa iniziai a lavorare col complesso di fiati “Rocco D'Ambrosio”, qualche collega di Conservatorio mi suggeriva di tenerlo nascosto per me per non guadagnarmi l’appellativo non certo gratificante di Maestro di Banda). Come se l'orchestra, grande o da camera, sia lo strumento nobile della musica e la banda quello povero, destinato alle feste cittadine e utile a propinare comunque al volgo la musica colta, della cui esistenza altrimenti non si sarebbe mai accorto. E di questa concezione spesso erano (e ancora a volte sono) portatori gli stessi operatori musicali, come i musicisti che militano nelle orchestre di fiati, «tanto – si dice spesso – non suoniamo mica alla Scala».
Nasce proprio da simili considerazioni un certo giudizio sfavorevole sul repertorio tipico delle Bande: marce (militari, sinfoniche, funebri) e trascrizioni, soprattutto di opere. Correggendo perciò il presupposto di partenza, si potrà comprendere meglio la natura e le qualità dei generi musicali veicolati dalle bande stesse.
Chiunque si sia occupato sia pure superficialmente della storia degli strumenti musicali, saprà che i fiati (tutti i fiati) non solo hanno notevoli capacità espressive come gli archi, ma che storicamente li precedono. Erano i complessi di fiati di allora, cioè le bande, che accompagnavano le celebrazioni e gli eventi più significativi, profani e anche sacri. Le bande servivano alle corti e ai principi, laici e chierici; la loro presenza più o meno numerosa segnava l'importanza e la ricchezza di re e imperatori, come in seguito è successo anche per gli archi. Ci ha pensato poi la Storia, con le sue rivoluzioni, a consegnare tutti questi mezzi espressivi alla fruizione delle masse, ricevendone in cambio contaminazioni e suggestioni da culture e tradizioni popolari.
C'è oggi una certa diffusa tendenza a giudicare sfavorevolmente tutto il repertorio della tradizione bandistica: «È una marcetta per banda», si sente dire a proposito di un brano musicale di poco valore. Ma la marcia ha un pedigree di tutto rispetto ed esteso nel tempo; ritengo superfluo citare i numerosi autori che le hanno dedicato attenzione. Anche le trascrizioni non godono di ottimo riguardo, dimenticando tutta una tradizione che vanta padri e antenati eccellenti, basti pensare a Bach e Vivaldi, senza voler citare Ravel e Mussorgsky o Schönberg e Brahms, o tutti quei compositori (e sono tanti) che hanno provato a dare una veste sonora differente alle proprie opere precedentemente scritte. Certo è vivamente augurabile che compositori validi scrivano per banda musiche originali, ma bisogna evitare accuratamente l’equazione originale = bello o l’altra: trascrizione = diminuzione. La banda è uno strumento dalle caratteristiche espressive originali, per lo specifico modo di veicolare i suoni: all’aperto, ricevendo dalla luce solare incremento e lucentezza al suo spettro sonoro; sulle cosiddette “casse armoniche” festosamente illuminate da cui emanano suggestioni percettive complementari; oppure tra i vicoli dei centri storici, dove si rincorrono gli armonici delle singole sezioni strumentali, usufruendo di condizioni acustiche variabili e performanti.
Si può decidere oggi di trascrivere per banda una partitura preesistente non solo per far conoscere al pubblico brani poco noti (ormai basta una qualsiasi promozione commerciale per far entrare nelle abitazioni una quantità prima impensabile di incisioni discografiche), ma soprattutto si può trascrivere per immergere la propria o l’altrui musica in un bagno di sensazioni acustiche uniche, che può donarle freschezza e suscitare emozioni diversamente irraggiungibili.
Voglio dire che c’è uno specifico sound, una specifica, a volte complessa sonorità che si vuole sperimentare quando si trascrive, con la stessa viva curiosità e con lo stesso intenso piacere con cui Bach trasferiva sull’organo i concerti di Vivaldi o con cui Arnold Schönberg trascriveva per orchestra il quartetto in sol minore op. 25 di Brahms.
Tutto questo presuppone una convinzione quasi filosofica: ogni prodotto artistico, che si tratti di musica, di letteratura o d’altro, una volta partorito, vive di vita propria, distaccata dalla volontà del proprio autore; ha il diritto di sperimentare nuove avventure sonore e sottoporsi a processi evolutivi, evitando di rinchiudersi nella veste in cui è stato fasciato alla nascita come in una corazza protettiva. Una simile tesi ovviamente aprirebbe una discussione appassionata quanto lacerante sul diritto d’autore, ma fortunatamente non è questa la sede. È proprio grazie a questo principio che tutta la musica occidentale ha potuto godere di una vasta, continua e incessante evoluzione. Il Canto Gregoriano sarebbe morto da tempo se non fosse trasmigrato nelle composizioni polifoniche fiamminghe o nei Fiori musicali di Girolamo Frescobaldi; o non fosse stato rivisitato da Respighi o da Orff nei Carmina burana o più recentemente da Arvo Pärt nelle sue numerose composizioni, o se infine non avesse irrigato, con le sue particolari scale modali, buona parte della letteratura jazzistica.
Certo l’utilità della trascrizione non si identifica tout court con l’influsso che un particolare genere o stile musicale può avere nell’evoluzione della storia della musica, ma il principio di fondo che la sottende (e cioè che ogni composizione vive di vita propria e autonoma dall’autore) ha prodotto mescolanze e contaminazioni che hanno apportato notevoli benefici allo sviluppo della sensibilità e della tecnica compositiva stessa.
Quanto è valida una composizione per banda non sarà dunque a stabilirlo il fatto se si tratta di un’opera originale o di una trascrizione, ma quanto possiede di particolare sound capace di produrre emozioni tipicamente legate allo strumento a cui è destinata. Intendo dire che, se la trascrizione è un nuovo abito che l’opera indossa, dipenderà dalle qualità artistiche e artigianali del sarto che lo confeziona il risultato estetico e la disinvoltura nel portamento dell’indossatrice.
Nella letteratura bandistica, soprattutto dell’Italia meridionale, trovo che la trascrizione di opere melodrammatiche la fa da padrona. Forse è un retaggio di quella funzione sociale attribuita alle formazioni bandistiche, cioè di dover portare al popolo composizioni che questo non potrà mai ascoltare dal vivo. Come dicevo, credo che questa sia oggi una funzione pleonastica. Cd, dvd e reti televisive assolvono a un simile compito in modo egregio, anche se sarebbe augurabile un incremento di attenzione alla produzione musicale soprattutto da parte delle televisioni pubbliche. Credo che l’opera trascritta per banda abbia un suo fascino per niente trascurabile, e che non debba andare affatto perduta la tradizione tipicamente meridionale, purché non resti limitata alle solite tre o quattro produzioni verdiane o pucciniane. Ma è soprattutto la musica sinfonica che andrebbe presentata più spesso in veste bandistica, e in modo particolare (a mio avviso) quella relativa al repertorio russo, la cui sensibilità nei confronti dei timbri degli strumenti a fiato è particolarmente spiccata. Né andrebbe trascurato il repertorio di epoche lontane, come ad esempio, tutta la produzione di danze rinascimentali o le composizioni dei Gabrieli, di Frescobaldi, di Händel o (perché no?) del repertorio organistico e clavicembalistico bachiano. La banda è uno strumento duttile quanto l’orchestra, ha delle potenzialità foniche, timbriche e dinamiche che andrebbero ulteriormente esplorate, e la letteratura di epoche lontane dalla nostra potrebbe favorire l’incremento delle sue capacità espressive e il potenziamento e l’evoluzione delle tecniche strumentali stesse.
In conclusione, credo che il dilemma “musiche originali o trascrizioni?” sia un falso problema. Non sarà solo l’abbondanza di nuove partiture originali a riportare la Banda al centro dell’attenzione o a conferirle il diritto di cittadinanza tra la musica “alta”. Serve invece un incremento di curiosità e di fantasia da parte dei compositori nell’accostarsi a uno strumento nobile insieme e antico, e la convinzione profonda che c’è un solo modo di servire adeguatamente la Musica: trattare con rispetto e competenza tutti i suoi strumenti, senza pregiudizi e con l’umiltà di chi ha ricevuto in dono il privilegio di poter lavorare e divertirsi col mondo dei suoni.