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Vito Mariano Giosa, 20 gennaio 2011, ore 13:00

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Tango
, che agli albori della computer art e dei videoclip, nel 1983 ha vinto l'Oscar come miglior cortometraggio animato, se pur in bassa definizione, artigianale e con difetti, è forse il lavoro più riuscito e conosciuto di Zbigniew Rybczyński

 

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Una palla finisce all'interno di una stanza vuota attraverso una finestra, un ragazzo entra per raccoglierla. Come in un tango le figure si incontrano, si toccano, si sfiorano, interpretano un'azione della loro vita senza mai uscire di scena e ripetono incessantemente la loro parte come trasportate sul carrello di una fotocopiatrice che va su e giù in un movimento paranoico e sincronico. Trentasei personaggi escono ed entrano con un comportamento ripetitivo, si incrociano per occupare lo spazio stretto di un'unica anonima stanza, dal pavimento di legno e dalla carta da parati blu a motivi geometrici, senza mai scontrarsi, come fossero figure bidimensionali, ritagliate, in azione su un set claustrofobico. Zbigniew Rybczyński ha dovuto disegnare e dipingere circa 16.000 mascherini trasparenti e fare diverse centinaia di migliaia di esposizioni su una stampante ottica. Ci sono voluti ben sette mesi, sedici ore al giorno, per realizzarlo. «Il miracolo è che il negativo durante il processo ha subito un danno minimo – ha dichiarato il regista – e ho fatto meno di cento errori matematici su diverse centinaia di migliaia».

Rappresentazione dell'alienazione o spaccato di vita quotidiana della Polonia comunista, come pure è stato ipotizzato?
Probabilmente nessuna delle due.
Ryszard Ciarka fa riferimento ad un possibile tentativo di raffigurare la memoria storica della stanza mediante la presenza simultanea di quanti, in momenti differenti, l'hanno occupata.1 La rappresentazione della compresenza di momenti differenti in un unico spazio, il dipanarsi del tempo in uno spazio che resta immobile, darebbero voce all'urgenza di reinventare le coordinate del mondo così come siamo abituati ad esperirlo, a manipolare lo spazio e il tempo facendoli interagire con le consuetudini percettive, l'immaginazione, l'esperire di chi la realtà la osserva. E l'indefinita dilatazione del presente che finisce per abbracciare anche tutto il passato della stanza ha una funzione demiurgica.
In un'intervista alla domanda su cosa gli venga in mente pensando al futuro, Rybczyński risponde: «Il più delle volte sono nel futuro, questo è quello che per me conta di più». Desituarsi dal presente dunque, per scrollarsi di dosso un'idea monolitica della realtà, in cui ogni cosa e ciascun evento ha una collocazione determinata. Il mondo esiste solo nell'immaginazione, nelle esperienze e nei ricordi, nella nostalgia e nei sentimenti.
«Vorrei che le persone guardassero i film senza considerarli imitazioni della realtà», aggiunge. E che l'immagine, diremmo, non si limiti a riprodurre il mondo, ma contribuisca ad arricchirlo.

Note
1. Cfr. Ryszard Ciarka, Zbigniew Rybczyński. Traveller to the Land of the Impossible. A collective work, Warsaw, 2000

 

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