
In tutte le epoche della storia vedo una folla di lavoratori che si affaticano lavorando con le proprie mani, creano strumenti, inventano tecniche empiriche ed infine procurano all'umanità le risorse che le permettono di vivere e di perpetuarsi. [...] Così non potrei dimenticare gli spiriti indipendenti che, rompendo col conformismo del mondo in cui vivevano, osarono criticarne i difetti e gli abusi; e meno ancora gli audaci che osarono denunciare l'autorità che i sovrani e le classi dominanti si arrogavano sul resto della nazione per sfruttarne il lavoro o che, all'occorrenza, affrontarono i pericoli con cui lo straniero e il tradimento minacciavano l'indipendenza della patria. [...]
Quando sfoglio le pagine del passato e i loro anonimi fantasmi escono dall'ombra, sento che dall'intelligenza sgorga una profonda emozione: una fraternità ci unisce. Finché il racconto servirà a salvare la loro memoria dall'oblio io non l'abbandonerò mai perché ai miei occhi questi uomini sono la luce della storia.
Georges Lefebvre
È stato detto che rimuovere il ricordo di un crimine vuol dire commetterlo di nuovo. Cosa si può dire di quei crimini del tutto ignorati da ogni pubblica rievocazione?
La vicenda che qui si presenterà è quella di Nicola Di Pede, un contadino di Matera condannato dal sistema fascista a maltrattamenti tali da provocarne, dopo sei anni fra carceri e confino, la morte.
La fotografia a corredo della scheda biografica che gli fu dedicata quando, a 37 anni, fu inviato al confino, ci mostra un individuo dalla testa rotonda, il collo corto, la faccia paffuta, i baffi a spazzolino, il mento sfuggente e un orecchio un po' sporgente. Probabilmente da ciò gli viene il soprannome, Scarparecchia (orecchio a scarpa), che lo distingue dai tanti con il suo stesso cognome, ma a renderlo veramente diverso dal tipo comune di contadino materano sono gli occhi. Chiari e dall'espressione fiera e decisa.
Ha fatto la guerra Nicola, quella vera, al fronte, e tornato a casa ha partecipato alle lotte per avere la terra promessa ai combattenti nelle trincee. Era stata quella promessa a risollevare il morale dei nostri soldati dopo la disfatta di Caporetto e a portare alla creazione – voluta dal ministro dell'agricoltura Francesco Saverio Nitti – dell'Opera Nazionale Combattenti. "L'Italia nuova deve fondare le sue più giuste e più fulgide speranze soprattutto su quelli che sono stati i suoi figli minori, su quelli che nella guerra l'hanno servita con devozione eroica" fu proclamato solennemente nel dicembre del 1917 nel suo atto costitutivo,1 ma a guerra finita la terra non arriva e i contadini provano a prendersela da soli dando vita a un tumultuoso movimento di occupazione. Particolarmente confuso e torrenziale è quello che si sviluppa a Matera fra il 1919 e il 1921.
Ai contadini non importa il colore politico di chi lo guida. Seguono perciò prima il sedicente rinnovatore Francesco D'Alessio che, fattosi eleggere deputato nel 1919, li abbandona alla loro sorte, poi i socialisti che nell'autunno del 1920 conquistano il comune e infine, nella primavera del 1921, i fascisti che proprio promettendo la terra – dopo il colpo di mano del 20 febbraio favorito dal prefetto Giulio Nencetti che costringe alle dimissioni l'amministrazione socialista – li attirano dalla loro parte.2

Nicola, e non solo lui, si sarebbe fatto anche musulmano per la terra.
Lui e gran parte degli iscritti al partito socialista avevano allora aderito al fascismo. E grazie a loro il primo fascio sorto nella regione, quello materano appunto, aveva potuto vantare una larga base popolare ed articolarsi in una cooperativa e un sindacato agricolo ad esso ispirato.
Dopo il fatidico 28 ottobre 1922 ci si sarebbe aspettato di vederli trattati con ogni riguardo, anche in considerazione del fatto che erano fra i pochissimi lucani a poter vantare una così precoce iscrizione al Pnf. Non fu così; al contrario, tanto che vedendosi guardati con sospetto, proveranno a rivendicare la legittimità della loro posizione in questi termini:
riguardo chenoi e revamo del lecchise partite socialista, orè che noi siamo di un coverno fascisti chiamato benito Mussolini che prima e revavo puro socialista e ori le uncapo del coverni così anco noi ori siamo tutti fascisti del nostro mussolini e vogliamo rispettare la legge del nostro Mussolini.3
Inutilmente. Con rinnovata diffidenza, in occasione delle elezioni che dopo sette anni di commissariamento dovrebbero dare alla città un'amministrazione, i carabinieri invitano i maggiorenti dei partiti d'ordine alla "realtà delle cose, e senza nutrire soverchia fiducia nelle subdole promesse degli ex socialisti, che ancora oggi sono tali nell'animo e nella fede, [... a] coalizzare le forze sane della popolazione in modo da non restare in ultimo sopraffatte dalla ingannatrice manovra dei social comunisti che oggi si riparano sotto la pura ombra della bandiera fascista al solo fine di arrivare indisturbati alla prefissa meta del loro avvento al potere".4
La "realtà delle cose" è, in verità, di tutt'altro segno e sostenere che fra i contadini ex socialisti ci fossero ancora illusioni di rivoluzione era una consapevole menzogna. Dopo la guerra i contadini, si è già detto, s'erano affidati come a santi protettori a personaggi di vario orientamento. Grazie al loro voto Francesco D'Alessio era stato eletto deputato nel 1919; sentendosi traditi da costui si erano poi affidati nell'autunno-inverno del 1920 ai socialisti per poi farsi sedurre e intimorire nella primavera del 1921 dall'amicizia interessata manifestata nei loro confronti dal movimento fascista.
Con la marcia su Roma – in realtà i fascisti lucani marciarono su Foggia – la borghesia agraria ha vinto su tutti i fronti, ma nell'immediato non sembra esserne consapevole. A Matera, nel nuovo clima che pervade il paese, le autorità locali (in primis prefettura e forze di polizia) si affrettano a liquidare ogni traccia residua dei moti che hanno portato uomini nuovi alla politica e alla coscienza personale rendendoli per la prima volta soggetti di storia. Ciò che si vuole è che i contadini che avevano osato uscire dai Sassi per protestare per le vie della città alta tornino nelle loro grotte.
Il governo che si proclama restauratore dell'ordine farà ordine prima di tutto in senso antropologico, cioè costringendo le classi umili a restare al loro posto. Poco importa che per raggiungere lo scopo si debba travisare la realtà richiamandosi al fatto che la maggioranza dei contadini, nella ricerca di protettori capaci di far loro avere la terra, era stata per pochi mesi anche socialista. Dei loro vari posizionamenti politici questo sarà l'unico ad essere ricordato: un marchio d'infamia che li ammutolirà per venti anni.
Stando così le cose non meraviglierà leggere nel fascicolo di Nicola annotazioni come questa: "Aderì per tendenza al movimento rivoluzionario fascista, ma a scopo utilitario per non averne molestie".
Tutto lascia credere che questi credesse invece seriamente all'esaltazione della gente dei campi predicata dal ruralismo e sindacalismo fascista. Ci credeva tanto che insistentemente chiedeva alle autorità provinciali di applicarne i principi nella pratica.

Come è noto il mito di Mussolini era assai diffuso fra la gente comune e si fondava, specialmente nelle campagne, sull'idea che lui fosse un uomo giusto mentre tutto ciò che non andava nel fascismo era dovuto ai "traditori che gli stavano attorno". Uno storico scomparso di recente, Piero Melograni, è arrivato a sostenere che sostanzialmente gli italiani non furono fascisti ma mussoliniani.5 La tesi sembra piuttosto discutibile sul piano generale poiché ipotizza una sorta di doppio regime (Mussolini da una parte e i gerarchi che rappresentano il fascismo sul territorio dall'altra) che nella realtà non ci fu poiché i gerarchi – tenuti in continua tensione dai frequenti "cambi della guardia" – erano scelti dallo stesso duce, ma coglie indubbiamente nel vero se riferita ai sentimenti dei ceti popolari nei confronti dell'uno e degli altri.
Come si vedrà in seguito, il mussolinismo, e la leggenda sul duce tenuto all'oscuro delle vere condizioni del popolo, era radicato profondamente in Nicola e nei suoi compagni. Come un bambino che pretenda dagli adulti di mantenere le promesse, così si comporta verso le autorità provinciali che nel 1927 lo fanno diffidare per la prima volta "a non occuparsi di politica e specialmente di [sic] avventare giudizi sul sindacalismo fascista".
Nonostante ciò, il suo nome è incluso fra quelli degli ex combattenti da sorteggiare per la concessione di lotti di terra e casa nel villaggio agricolo di Borgo Venusio, il complesso a pochi chilometri da Matera progettato da Luigi Piccinato, e la sorte sembrerà favorirlo poiché risulterà uno dei 66 assegnatari.
A leggere la cronaca della cerimonia di assegnazione tenutasi nell'ottobre del 1929, i protagonisti dell'evento sembrano essere – secondo uno stile che sarà poi fatto proprio dall'Ente di Riforma Agraria – le autorità più che i contadini. A loro, come a ragazzini da tenere a bada alternando lusinghe e minacce, il prefetto si rivolge invitandoli a "rendersi degni della benevolenza del Duce" e fa sapere che farà visite a sorpresa per rendersi conto di come vanno le cose. Più esplicitamente il funzionario dell'Opera Nazionale Combattenti ricorda che la concessione potrà essere revocata a chi non segua quanto prescritto nel coltivare e trasformare i terreni.6 Certo i sistemi culturali dei contadini materani sono da innovare profondamente; ma non sarà facile convincerli a passare dalla semina a spaglio a quella a solchi e dalla rotazione biennale a quella tri-quadriennale, né ad acquisire un minimo di istruzione frequentando la scuola istituita nel villaggio stesso.
Un approccio meno autoritario avrebbe dato probabilmente risultati migliori di quelli che si avranno. Fatto sta che nel marzo del 1931 il segretario dell'unione sindacale denunzia Nicola per diffusione di notizie che creano diffidenza verso il sindacato, spedizione di ricorsi infondati a Roma quando non ottiene ciò che crede gli sia dovuto e atteggiamento aggressivo verso l'insegnante.7 Ciò gli costerà una seconda diffida.
Una nota del luglio 1935 informa che da qualche tempo è più tranquillo, ma è bene continuare a tenerlo sotto controllo poiché rimane pur sempre un elemento turbolento. Non più iscritto al fascio si dedica "ai ricorsi e alle noie alle autorità" e "come il padre insinua spesso la classe contadina accampando ora un diritto ora un altro". In un'altra informativa si accenna a un suo avvicinamento al culto evangelico, ma senza frequentare alcuna delle chiese ammesse dal regime.
In concreto le proteste di Nicola mirano a ottenere la riduzione del canone di affitto e a questo istiga anche gli altri concessionari. In sette sono già sulla stessa linea e c'è il timore che altri li imitino, anche perché dalla protesta verbale sono passati a una tattica diversa: in attesa di riduzione, non pagano più il canone.
Dal profluvio di notizie contenute nella documentazione manca quella essenziale: quale era il canone dovuto? E quanto voleva pagare Nicola e compagni? Sappiamo da altre fonti che non erano gli unici a contestarlo, la loro colpa sarà quella di non farlo per vie legali.
Nell'agosto del 1935 ricevono perciò l'ingiunzione di sfratto dalle terre e dalle case, ma si rifiutano di andare via. Qualche mese dopo una delegazione formata dal Di Pede e altri cinque (Nicola Andrisani, Eustachio Morcinelli, Francesco Riccardi, Giuseppe Sacco ed Eustachio Spagnolo) prova a cercare giustizia a Roma chiedendo udienza al presidente dell'Opera, ma – annota la questura – "avendo assunto presso tale Personalità un atteggiamento violento e provocatore", furono fermati e riaccompagnati a casa dalla polizia.8
Si fatica a credere che i sei supplici possano aver avuto un atteggiamento del genere verso Araldo Crollalanza, il temibile gerarca e agrario pugliese a capo dell'Onc, ma tant'è.
In ogni caso non si fanno scoraggiare e a fine ottobre tornano nella capitale con il proposito di farsi ricevere da Mussolini. Proprio perché il capo del governo è ritenuto il solo giudice capace di rendere giustizia ai diseredati, i servizi di polizia gli hanno eretto intorno una barriera invalicabile: sono tanti, troppi quelli che vorrebbero parlargli. I sei materani saranno perciò facilmente individuati e diffidati a non mettere più piede nella capitale. Paradossalmente erano proprio provvedimenti come questi a rafforzare il mussolinismo poiché i cinque torneranno a casa ancora più fermi nell'idea che "se Lui sapesse...".
Ed è forse nell'ingenua speranza di "fargli sapere" che nel compilare i moduli dell'VIII Censimento della popolazione dell'aprile 1936, otto capifamiglia del borgo – fra cui naturalmente il nostro che compilerà oltre alla propria scheda quella di altri tre analfabeti – escogitano una nuova trovata. Alla voce religione scrivono: "Ateo libero pensatore del duce"; e a professione rispondono: "Ex affittuario disfrattato dall'Onc." Qualcuno elencherà a margine i beni posseduti: un traino, un mulo, due aratri di ferro, otto zappe, quindici sacchi, sette galline e un gatto.
Per la questura ciò costituisce ostruzionismo al censimento, tentativo di dare ufficialità all'arbitrario possesso delle terre e delle case del borgo. Le maggiori responsabilità sono attribuite a Di Pede e a Sacco dei quali si propone l'arresto. Dovrebbero, almeno per una volta, passarla liscia perché proprio in quei mesi è stato emanato un provvedimento che condona fatti e condotte delittuose anteriori al cinque maggio, ma non sarà così poiché tutti saranno sanzionati con una multa di cento lire, mentre a Sacco sarà revocata la licenza di spaccio dei generi di monopolio a suo tempo concessagli.9
Altrettanto clamorosa è la loro reazione al sequestro del raccolto di grano disposto dall'Opera per rivalersi dei canoni non pagati: lasciano sull'aia la parte eccedente il pagamento forzoso (trenta quintali) e mettono in libertà gli animali da lavoro.
Nell'agosto del 1936, accolto da una folla tripudiante, Mussolini visita Matera e vi inaugura la strada rotabile dei Sassi. Non risultano provvedimenti di fermo a loro carico in quei giorni. Chi sa se riuscirono almeno a vederlo?

A settembre Nicola, considerato insieme al Sacco l'ispiratore delle proteste, subisce il primo arresto; un mese dopo insieme a quattro compagni riceve l'ennesima ammonizione, ma rifiuta di firmare la carta che elenca i vincoli connessi al provvedimento. Nuovamente arrestato, nel corso del processo si ritira dall'udienza dichiarando di non voler sentire chiacchiere inutili, di non riconoscere alcuna magistratura e di voler parlare soltanto con il duce. Analogo atteggiamento mostrano Sacco e Riccardi. Saranno condannati a quattro mesi di carcere, cui se ne aggiungeranno presto altri sei con l'accusa di aver "intonato in coro in tono minore, in guisa da prevenire la sorpresa in flagranza da parte dell'agente di custodia in perlustrazione nel corridoio adiacente l'inno Bandiera rossa trionferà". Ad accusarli è un compagno di cella, un mendicante fermato per ubriachezza, che avrebbe resistito alla proposta di partecipare alla cantata sovversiva malgrado le botte e i tentativi "di adescarlo col promettergli del vino".10
Con tanti e tali precedenti, appare irrituale la considerazione personale del questore nel chiederne l'invio al confino: "a ciò sono indotto con serena coscienza, per la necessità di salvaguardare il Regime nella nuova atmosfera Imperiale voluta dal Duce, dall'opera ed attività non rassicurante di tre individui sin qui dimostratisi elementi riottosi, sobillatori, inclini alla disgregazione sociale, spavaldi e sprezzanti di ogni forma di autorità". Nella stessa nota attesta che i tre sono in buone condizioni fisiche e psichiche e quindi idonei a sopportare il confino anche in colonia insulare.11
Il 7 ottobre 1937, davanti alla commissione provinciale per il confino, Nicola non prova neppure a difendersi e ribadisce di riconoscere soltanto l'autorità del duce. È condannato a cinque anni e da questo momento, separato dai suoi compagni, la sua solitaria protesta si farà sempre più drammatica.
A chiusura della sua scheda biografica si legge:
Ex agitatore social-comunista, non si è per nulla cambiato in quindici anni di regime fascista e le sue stolte ideologie sovversive ha cercato di far rivivere nel villaggio di Venusio, ove gli era stato concesso in affitto, quale ex combattente, una casa ed un appezzamento di terreno; casa e terreno che gli vennero però coattivamente tolti non avendo voluto far fede al pattuito canone di affitto.
Nella società è disprezzato ed affiancato solo da qualche fanatico seguace delle sue stesse assurde teorie.
Il Di Pede è individuo prepotente, testardo, ciecamente ostinato, irriverente verso le autorità, insofferente di qualsiasi disciplina, fomentatore di discordie, autore e ispiratore di reclami infondati contro le autorità, sobillatore e disgregatore della compagine sindacale.
Ha istruzione elementare e nessuna educazione civile. Non risulta abbia sofferte malattie degne di nota. Nel carcere tiene cattiva condotta. Il suo contegno verso la polizia è sprezzante.
Sprezzante verso la polizia: si può immaginare come sarà ripagato per tale contegno da questurini e carcerieri.
Ma chiediamoci adesso, prima che inizi il calvario che lo cambierà per sempre, se Nicola era matto.
Sicuramente è uno stravagante, accanito ragionatore del perché di cielo e terra, un filosofo-contadino di cui i nostri paesi avevano sino a qualche decennio fa qualche campione. Un originale che per il modo di protestare lo apparenta a Michele Mulieri, (il "figlio del tricolore" raccontato da Scotellaro) e per gli interessi religiosi a un tardo erede del mugnaio friulano Menocchio studiato da Carlo Ginzburg.12 Forse anche, per gli aspetti furbeschi, a Bertoldo, il contadino scarpe grosse e cervello fine assai conosciuto nelle nostre campagne.
Per alcuni aspetti può considerarsi un relitto del passato che l'alta marea della dittatura ha riportato in superficie, all'attenzione dei nuovi inquisitori. A chi scrive piace immaginarlo protagonista ideale della rivoluzione e dell'autonomia contadina auspicata da Carlo Levi e pensare a cosa ne avrebbe scritto se l'avesse conosciuto.
Comunque lo si voglia considerare, Nicola non era più matto dei compagni che l'avevano accompagnato in tante avventure, ma loro a un certo punto si fermeranno e lui no. Per questo sarà portato alla follia e poi alla morte senza che, a malattia conclamata, la macchina repressiva si fermi.
Dopo un primo soggiorno alle Tremiti è trasferito a Montemurro, nel potentino, dove nell'agosto del 1939 si rende irreperibile. Dopo pochi giorni è rintracciato a Matera e condannato a quattro mesi di arresto trascorsi i quali è inviato a Ventotene. Qui nell'aprile del 1940 è arrestato dalla milizia per essersi rifiutato di presentarsi al loro comando. Costrettovi si dichiara "un ribelle dello Stato". Ai cinque mesi di carcere cui è stato condannato se ne aggiungono altri tre per cattiva condotta durante la detenzione. Ricondotto a Ventotene rifiuta di firmare la carta di permanenza. Altro carcere, altro rifiuto di firmare e altro carcere. Solo al termine della terza condanna, avendo ancora rifiutato di sottoscrivere l'atto, il direttore della colonia, non ritenendolo "nelle piene facoltà mentali" lo sottopone ad accertamenti sanitari. Nello stesso tempo chiede informazioni sul suo conto alle autorità materane. Lo avrà fatto per motivi umanitari o a scanso di fastidi e responsabilità?
Siamo giunti al maggio del 1941 e la prefettura di Matera dichiara, in un promemoria per il responsabile della quinta zona d'internamento, di non poter precisare "con assoluta certezza se trattasi di un ignorante, di un vero e proprio sovversivo o di un individuo menomato nelle facoltà mentali. Forse saranno tutti questi elementi che ne determinarono in primo tempo l'assegnazione al confino durante il quale non ha dato in alcun modo prove di ravvedimento".13
Per i sanitari invece non si sono dubbi, Nicola soffre di paranoia e delirio di persecuzione e ne ordinano il ricovero nel manicomio di Napoli. Nell'aprile del 1942 le sue condizioni si aggravano e viene trasferito nella casa di cura Villa Russo di Miano. Al momento del ricovero – recita la cartella clinica – pesa 45 chili e si presenta calmo, negativista, incoerente, dissociato. Nel mese successivo perde ancora peso e manifesta marasma generale e insufficienza cardiaca. A dicembre peggiora ulteriormente, ha gastralgie e vomito ostinato, è appartato e mutacico. Muore il 23 marzo del 1943 in seguito a psicosi paranoide, deperimento organico e paralisi cardiaca.
Solo dieci anni dopo la caduta del fascismo lo stato italiano, con la legge 96 del 10 marzo 1955 che equiparava i morti al confino ai caduti in guerra, penserà a risarcire le vittime. Ne avrà beneficiato la moglie di Nicola e i suoi quattro figli?
Dopo aver ridotto per sempre al silenzio questo pericoloso soggetto, il fascismo dovrà vedersela in quello stesso mese con centinaia di migliaia di italiani che nelle grandi fabbriche del Nord come nelle campagne del Mezzogiorno, stremati dalla fame e dai bombardamenti, vanno sempre più convincendosi che la loro salvezza e quella del paese potrà venire solo dalla fine del regime.
La protesta dilaga anche in Lucania dove la gran parte dei contadini affittuari, dopo aver pagato il canone al proprietario e versato all'ammasso la parte restante del raccolto, si trova senza grano per il consumo famigliare nel lungo inverno che li aspetta. Ed ha in qualche caso esiti drammatici. Come a san Mauro Forte dove, il 31 marzo del 1943, i carabinieri sparano sulla folla uccidendo due persone.14
Alimentato da queste sorgenti di violenze e ingiustizie nascerà in Lucania dopo la caduta del fascismo uno dei movimenti contadini più combattivi d'Italia. A Nicola e compagni va riconosciuto il ruolo di disperati suoi precursori.
Note
1. F. Boccini e E. Ciccozzi (inventario a cura di), Opera nazionale per i Combattenti. Progetti.
2. Il fascio materano "primigenio" è formato nel dicembre del 1920 da: Vincenzo Tortorelli (presidente), Savino Fragasso di Giovanni (fiduciario), Michele Maglione (segretario politico), Francesco Porcari (cassiere) ed Eustachio Guanti, Giuseppe Virgintino, Francesco Volpe di Francesco, Mauro e Vito Volpe (consiglieri). Ha per scopo dichiarato la "valorizzazione della vittoria e la lotta contro il bolscevismo mercé resistenza ed opposizione alle forme teoriche e pratiche del detto socialismo politicante. Ha tendenza ad una organizzazione militare". Dipende dal fascio di Milano da cui sarà riconosciuto ufficialmente il 31 gennaio 1921 e dispone di un contributo mensile di mille lire e "di un fondo imprecisato costituito da oblazioni da parte dei proprietari" (cfr. Acs, Pnf, Servizi vari, serie I, busta 989). Questo fascio scriverà Michele Manfredi ne Il fascismo di Basilicata, stampato a Matera nel novembre 1923, "si era sostanzialmente quasi contrapposto al fascismo elettorale dell'on. Catalani [...] e del deputato demo-sociale D'Alessio". Non pare quindi fondata l'attribuzione della paternità del primo fascio materano al deputato demo sociale Francesco D'Alessio (cfr. A. Pontrandolfi, La Terra, pagg. 174-175, Matera, 2004).
Per una ricostruzione dello scontro fra la componente "idealista" del fascismo lucano che faceva capo a Nicola Sansanelli e quella notabiliare e opportunista di matrice d'alessiana, mi permetto di rimandare a C. Magistro, Dal fascismo alla Repubblica, in Potenza Capoluogo (1806-2006), vol. I, pagg. 281-290.
3. Archivio di Stato di Matera, Gabinetto prefettura ricovero 1990 b. 82, Lettera di alcuni ex consiglieri comunali socialisti al viceprefetto di Matera del 25 marzo 1923.
4. Ib., Elezioni amministrative a Matera, nota della Compagnia dei Rrcc al sottoprefetto di Matera del 20 marzo 1923.
5. A tale proposito il liberale antifascista Piero Gobetti aveva detto: "Il mussolinismo è [...] un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza".
6. Cfr. Il prefetto Oliveri assegna il latifondo Venusio ai contadini combattenti di Matera in "Agricoltura Materana", anno II, n. 10, ottobre 1929.
7. Archivio di Stato di Matera, fondo Questura, Sovversivi, b. 11.
8. Ib., "Ammonizione di...", nota della questura di Matera del 27 settembre 1936.
9. Ib., "Venusio: informazioni su alcuni abitanti sospetti sovversivi", nota del 29 maggio 1936.
10. Ib., nota della questura del 30 settembre 1937.
11. Ib.
12. R. Scotellaro, L'uva puttanella. Contadini del sud, Bari, 1972, pp. 125-166 e C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Torino, 2009.
13. Acs, Confinati Politici, B. 364, Di Pede Nicola, Pro Memoria pel Comm. Dr. Li Voti del 27 maggio 1941.
14. R. Giura Longo, I contadini lucani e il fascismo: dissenso e rivolta in AA.VV, Campagne e fascismo in Basilicata e nel Mezzogiorno, Manduria, 1981, pp. 44-45 e C. Magistro in Il Materano fra totalitarismo e liberazione alleata, Bollettino storica della Basilicata n. 21/2005.