A ragione L’uva puttanella di Rocco Scotellaro è stato definito nella prefazione fatta all’edizione del 1963 da Carlo Levi, che – si ricorderà – dell’opera del giovane sindaco di Tricarico era stato uno strenuo sostenitore, “una storia generale poetica del Mezzogiorno”. O, anche in riferimento al suo carattere di piana narrazione della situazione del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, “un memoriale, un memoriale dei nostri paesi".
G. B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi, Bari 1996, pag. 170.
Fra le pagine che più vividamente danno testimonianza della partecipazione dell’autore alle vicende narrate, ci sono quelle riguardanti il suicidio di Pasquale, un anziano pirotecnico ridotto alla disperazione.1 A portarlo a un così estremo gesto aveva concorso la burocratica cecità della legge (gli erano stati sequestrati i materiali perché non aveva rinnovato la licenza), l’egoismo del contadino che aveva comprato la sua casetta e sfrattato e – scriverà Levi nella prefazione – “la vanità del potere, che non è un vero potere, e non può agire, e si corrompe in se stesso, e permette al vecchio fuochista di uccidersi”.2
Ad aggiungere rimorso al dolore, Scotellaro, portatore di un senso etico che un ventennio dopo farà scrivere a Pier Paolo Pasolini che “peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare", si sentirà corresponsabile di quella morte.
Con il senno di poi si può dire che effettivamente il sindaco socialista avrebbe potuto fare di più per l’anziano fuochista, ma a quanti avrebbe fatto torto per ciò che avesse fatto in più per lui?
Per capire la particolare durezza di quegli anni bisogna considerare che con l’entrata in guerra (giugno 1940) e per i successivi dieci anni molti italiani passarono dall’antica povertà alla miseria. E ciò indipendentemente da quello che accadeva sui fronti. Nella sola Basilicata migliaia di famiglie che sopravvivevano con i vaglia “americani” dei parenti emigrati si ritrovarono di punto in bianco nell’indigenza più nera, le sue campagne si riempirono di sfollati e i sussidi alle famiglie dei militari cessarono dopo l’8 settembre 1943. A pensare ai vecchi e ai nuovi bisognosi avrebbero dovuto pensare gli Enti Comunali di Assistenza (Eca). Avrebbero dovuto! Ma le risorse loro destinate dai magri bilanci dei comuni diventarono sempre più scarse.
Proprio studiando le carte di un Ente Comunale di Assistenza, quello di Tricarico, si scopre che qui, oltre agli sfollati, alle famiglie degli emigrati e a quelle dei militari bussavano alle sue porte supplicando aiuti anche gli appartenenti a una particolare categoria di artigiani, i pirotecnici.
In alcuni paesi lucani quest’attività era praticata da alcune famiglie e nella piccola Tricarico c’erano ben tre sparafuochi. Due erano i fratelli, o cugini, Pietro e Pancrazio S.; il terzo, che tutto fa ritenere fosse il Paquale con l’eterna mantellina di cui parla Scotellaro, si chiamava in realtà Pancrazio P.
Si possono capire i motivi per cui in un paese in guerra si proibiscano gli spettacoli pirotecnici. Fu quanto fece il governo fascista. Nello stesso tempo dispose che i comuni concedessero aiuti a quanti vi erano addetti per risarcirli della forzata inattività. Non sappiamo quali aiuti l’Eca di Tricarico riuscisse a far loro arrivare, ma a partire dal 1942 il sussidio, quale che fosse, fu sospeso. Per questo i tre sparafuochi decisero di scrivere al podestà una lettera collettiva. In questa lamentavano di non poter “perfettamente vivere per la sola assistenza alimentare” e chiedevano di riavere un sussidio in denaro. Evidentemente la richiesta lascia il tempo che trova e nel settembre del 1942 uno dei firmatari della prima lettera, Pancrazio S. che ha una famiglia di sei persone, torna alla carica dicendo che “dati gli aumenti continui dei generi alimentarie e tutte le altre cose, siamo lasciati tutti scalzi e all’ignudi, e poi tengo anche da pagare l’affitto della casa”.
Dopo quattro inutili richieste al podestà, la moglie di Pancrazio S. decide di rivolgersi al prefetto. L’assistenza alimentare che ricevono, sostiene, è insufficiente e in ogni caso hanno bisogno di soldi per pagare l’affitto, il marito è “abbastanza di maggiore età di 60 anni che lavoro può adossare o forse deve andare a rubare per vivere la famiglia?”. Si dia loro un aiuto in denaro, “o puro date il permesso di fare sparare delle piccole castagnole che una vita così triste non la possiamo fare che ci moriamo di fame”.
A un certo punto anche il nostro Pasquale-Pancrazio decide di prendere carta e penna. Lo fa nell’agosto del 1944 poiché dal gennaio il sussidio gli è stato tolto e adesso come stipendio riceve una razione alimentare che non basta neanche a un ragazzino e 100 lire mensili diventate con l’inflazione carta straccia.
Il motivo della sospensione è presto detto: non sarebbe in condizioni di necessità visto che “ha largito duemila lire ad una sua concubina sfollata”. In realtà, sulla base di successive e diverse informazioni, si scoprirà che “per passione senile”’ – o per bisogno di accudimento? era nato nel 1876 e non aveva famiglia – il buon uomo aveva firmato una cambiale, ma non versato denaro poiché non ne aveva. A partire dal 1° novembre il sussidio gli viene ridato. Non sappiamo in quale precisa data Pancrazio P. si toglierà la mantellina quattro stagioni per imbottirsi dei botti sfuggiti al sequestro e fare della sua morte un ultimo spettacolo. Sappiamo quanto lunga era stata la sua stagione di miseria e umiliazioni.
1. R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, Bari 1972, pp. 41-46.
2. Ivi, p. XII
Nota: i documenti citati sono conservati presso l’Archivio di Stato di Matera nel fondo Gabinetto Prefettura, Ricovero 1990, Tricarico.