Di che cosa sono fatti i disegni di Roland Topor?
Certamente della stessa sostanza dei sogni, di quelli che si insinuano bizzarri nel dormiveglia, se si è mangiato troppo, come accadeva al piccolo Nemo goloso di torte ai lamponi, oppure, più probabilmente, di quelli terribili che a notte alta fanno balzare in piedi, pieni di angoscia. Paradossalmente una delle poche immagini che abbia un soggetto dichiaratamente onirico è anche la meno efficace. Si tratta di "E li chiamano sogni" del 1974, una beffarda constatazione delle creature che fittamente popolano i sogni di non meglio precisato giovanotto. Inevitabile si fa la citazione del famoso quadro del pittore svizzero Füssli, l'Incubo, quello che Freud teneva ben visibile appeso nel suo studio (ammonimento o sfottò?). E altrettanto inevitabile si fa l'interrogativo sulle influenze e i legami del disegnatore polacco nei confronti di chi prima di lui ha saputo evocare demoni o angosce, da Bosch a Bruegel, da Kubin a Magritte.
Nessun debito però, con nessuno. L'universo toporiano è sì popolato da figure trasposte direttamente dall'incubo alla realtà, ma a governare l'uno e le altre è sempre la logica nitida e ineccepibile, pur nella sua folle assurdità.
Molteplici sono i legami di Topor con il cinema: da notare i manifesti per i film "Il pianeta selvaggio" e "L'impero dei sensi" del regista giapponese Nagisa Oshima, oltre a quelli davvero numerosi e geniali per spettacoli teatrali di vario tipo. Curiosissima poi la partecipazione dell'artista stesso al film italiano Ratataplam, di Maurizio Nichetti, nella parte di un burbero dirigente, miracolo della pozione misteriosa e ripugnante somministratagli dal goffo Nichetti, alla sua prima prova cinematografica.
Curioso di ogni cosa, il sornione Topor strizza l'occhio al teatro, al cinema e pure alla letteratura, cimentandosi anche qui in prima persona in un manuale del perfetto suicida, ovvero, cento motivi per continuare a vivere. Qui il suo gusto dell'orrido, del macabro, del bizzarro un po' barocco si sfoga in parole e non in immagini. Ad esse invece torna, finalmente nelle sue più abituali vesti di illustratore, creando splendide tavole per il Pinocchio di Collodi o per Aymé e Toltoj. Veri gioielli dove forse maggiormente traspare un sotterraneo legame con il gusto ed il compiacimento sarcastico proprio della tradizione satirica polacca, ben desta in Topor, il cui nome appunto significa in polacco ascia.
Se davvero nel nome di ogni uomo è scritto il suo destino, cosa di cui erano certissimi gli antichi greci, allora Roland Topor ha tenuto brillantemente fede agli auspici del Fato, cimentandosi nella più efferata e lucida scomposizione e ricomposizione della nostra esistenza, denunciandone banalità e luoghi comuni, nefandezze ed ossessioni, ma soprattutto riuscendo sempre a farci ridere, nonostante la pelle d'oca e il ribrezzo.
*Quaderni Aiap, n.8, dicembre 1986.