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Cristoforo Magistro, 17 agosto 2014, ore 11:00

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Negli ultimi anni un crescente numero di persone ha cominciato a dedicarsi alla narrazione del nostro territorio soprattutto attraverso la forma del racconto o del romanzo. Personalmente credo che questo sia un fatto positivo, un elemento che dà la misura dell'attaccamento alla propria terra e alla propria storia. Non ci si interessa a ciò che ci è indifferente, a ciò che non sentiamo. Ben vengano quindi tante altre opere di ispirazione paesana o regionale. C'è posto per tutti.

La letteratura e la cultura in genere, penso alla musica e alla grafica nelle quali il nostro territorio ha espresso grandi eccellenze, non teme concorrenza. Un romanzo, un'opera grafica, un brano musicale che illustri e racconti il paese, non sono come un bar o una focacceria che tolga clienti agli altri esercizi del genere già esistenti. Al contrario stimolano confronti, spingono ad ulteriori consumi, inducono altri a prendere gli attrezzi del mestiere per dire come il paese è "veramente" secondo lui. E anche questo è giusto poiché ogni paese è "veramente" come ognuno lo vede. Ciò significa che mancano al completamento dell'identità montese svariate migliaia di altri romanzi, opere musicali, illustrazioni etc., poichè Monte ha svariate migliaia di facce, di anime e di percezioni di se stesso.
Non sto scherzando, non del tutto. Si parla giustamente di cibo (frutta, verdura, carne, pane, latticini) a chilometro zero anche se poi, in molte parti d'Italia, è utopia trovarlo se non a prezzi da gioielleria. Se questo è un bene, se è vero che la cultura è il cibo dell'anima perché non bisognerebbe stimolare e favorire la cultura a chilometro zero? Non vorrei essere frainteso: il mio non è un invito all'autarchia e alla chiusura delle frontiere. Ci mancherebbe, anche a volerlo non sarebbe fattibile, ma spesso attribuiamo al prodotto culturale di fabbricazione locale l'etichetta di provinciale, vale a dire mediocre, noioso, insignificante senza minimamente conoscerlo e compriamo invece a scatola chiusa il giallo scandinavo, il saggio francese, il romanzo americano che un'accorta politica commerciale ci fa trovare in edicola, alla stazione, al supermercato.
Snobbare le nostre cose senza darsi la pena di conoscerle, questo è provinciale. Liberi di dirne peste e corna se sono insignificanti, ma prima facciamocene un'idea. Sarà la storia a dire o, ignorandoli, a non dire che valore avevano. O sarà il caso, la sorte, la fortuna visto che, come sapevano già i romani, anche i libri hanno un destino.

Va da sé che il produttore locale non deve cercare di scimmiottare il giallo scandinavo, il saggio francese, il romanzo americano, altrimenti non ne veniamo fuori.
Con Peppe Lomonaco questo rischio non esiste, oltre che i contenuti, la chiarezza e la freschezza del suo stile ne testimoniano la genuinità. Una genuinità e una freschezza che, a parte ogni altra considerazione, in alcune pagine dei suoi lavori appaiono straordinarie. Quando dico ciò penso a, per così dire, piccole cose. A passaggi come questo in cui si racconta di quando la famiglia del protagonista – in viaggio in treno, al primo viaggio, di emigrazione – scopre il mare:

Anche papà non aveva mai visto il mare. Mamma, che stava allattando Margherita, s'alzò e venne pure lei a vedere il mare che non finiva mai. Guardarono e dissero solo "Il mare!".

I personaggi del racconto sono contadini che non hanno un grande bagaglio di parole e che usano con parsimonia quelle che hanno perché sanno che le parole sono importanti e non vanno sprecate e perciò la meraviglia e l'infinito stupore che provano mentre già stanno vivendo una situazione mai sperimentata prima – sono in treno per la prima volta e vanno verso l'ignota Svizzera – non trova sbocco in manifestazioni verbali ma nel guardare il mare, nel vedere che non finiva mai, tanto che non rimane loro altro che continuare a guardarlo sentendosi sempre più piccoli e riuscendo a dire solo "Il mare!".
Ecco sono queste le cose che dal punto di vista strettamente letterario apprezzo di più di questi racconti, questi sprazzi di pudica poesia. E la loro esemplare chiarezza, il rischiararsi della coscienza alla comprensione delle cose e dei rapporti fra le persone nel bambino o nella bambina che di quei racconti è protagonista. Lascio ai lettori il compito di individuare i tanti altri punti di grande suggestione che, a mio avviso, si ritrovano in queste pagine. Personalmente mi permetto di chiedere ancora qualche minuto della vostra pazienza per parlare degli aspetti storici e sociologici della scrittura di Lomonaco.

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Io sono fra quelli che credono ancora che la filosofia, l'arte e tutte le forme di consapevolezza che ogni società ha di se stessa corrispondono e dipendono dalla struttura materiale di quella stessa e che quindi il pensiero di ogni individuo è condizionato dall'ambiente, dall'educazione, dal suo vissuto. Essere condizionati non significa essere condannati a replicare quegli elementi; la libertà dell'artista è fatta anche di ripudi, negazioni, rielaborazioni che tendono a far perdere la sorgente di ispirazioni.
Nella scrittura di Lomonaco questi – chiamiamoli così – trucchi non ci sono. Lui racconta il paese, il suo, pur senza nominarlo, le sue vie con i loro paesaggi sonori e olfattivi, le relazioni fra famiglie, le sue lotte. E lo fa da un particolare, dichiarato punto di vista. Ai giovani protagonisti delle sue storie il mondo non va bene così come è, non lo trovano giusto e pensano che sarebbe meglio cambiarlo e, per quel che possono, entrano in ballo – per dirla con Scotellaro – anche loro. Sono personaggi ben dentro la storia, alle sue ribellioni, ai suoi cambiamenti e ai suoi esodi, non figure immobili di un presepe immutabili.
I suoi personaggi si costruiscono la casa da soli, partecipano alle lotte contadine, insomma lottano e quando quel ciclo si chiude – un ciclo decennale, bisogna ricordarlo dal 1944 al 1953, nessuna delle più celebrate lotte operaie è durata tanto – perché l'Italia si sta trasformando in un paese industriale e sentono la sconfitta, emigrano. Ma tornano, sempre più di rado, e vanno sui luoghi della loro infanzia a cercare di rivedere il Cavallone bianco, ad aspettare il ritorno di uno dei tanti miti fondativi di quella età. Per qualche istante hanno l'impressione che gli anni non siano passati. Ma dura poco. Giusto qualche istante.

Peppe Lomonaco
Strade. Storie di vita, lavoro e vicinato
Edizioni Motola, 2014

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Montescaglioso, nei pressi dell'Abbazia. (foto Augusto Viggiano, 1960 circa)

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Un orto in Mozambico presso la missione di frate Antonio Triggiante.

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