Le miniere a cielo aperto, le infinite potenzialità narrative nascoste nei piccoli centri di provincia hanno trovato un loro esploratore in Peppe Lomonaco, un appassionato di storie di gente comune che ha raccolto una sessantina di interviste di persone nate o residenti nel suo paese, Montescaglioso. Il frutto della sua ricerca è confluito nella raccolta intitolata Se hai bisogno, dimmelo. Il titolo, estrapolato da una delle testimonianze, vuole evidenziare il clima comunitario e solidaristico in cui quelle vite si sono svolte e, nello stesso tempo, dar conto del tono colloquiale che caratterizza la raccolta.
Per quanto riguarda il mestiere o professione, abbiamo la seguente situazione: cinque agricoltori, nove artigiani, due braccianti, due commercianti, un docente universitario, un frate missionario, un impiegato, due imprenditori, due insegnanti, ventiquattro operai, un pastore, un sindacalista, due tecnici e tre trasportatori. Tali qualifiche si riferiscono a quella che è stata l'attività prevalente – tutti hanno fatto mediamente due o tre altri lavori – mentre adesso moltissimi sono pensionati.
Nato, anche, da un'antica suggestione, il lavoro non è tuttavia una tarda rivisitazione in chiave lucana de Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Non lo è primariamente poiché la maggior parte dei testimoni intervistati non si riconosce nell'etichetta dei vinti e, pur senza trionfalismi, appare anzi – e giustamente – convinta di aver giocate al meglio le carte che il tempo, il luogo e la condizione sociale di nascita gli assegnarono. Questa raccolta di narrazioni smentisce infatti sia i luoghi comuni che vorrebbero il Sud eternamente immobile ed arretrato sia l'ideologia dell'ottimismo a tutti i costi.
Le storie qui riportate ci dicono che la Lucania degli ultimi settanta anni non è il migliore dei mondi possibili. Ma soprattutto dimostrano che non è più neppure – per usare le espressioni di apertura del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi – "quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente". Dopo tanto parlare e scrivere di questione meridionale da parte di politici e studiosi, dopo essere stata negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso giustificazione – e spesso pretesto – dell'assistenzialismo che vedeva il Sud come il grande malato che solo il sostegno dello Stato poteva tenere in vita, la questione meridionale o, meglio, quel che ne rimane, viene aggiornata ai nostri anni dai suoi protagonisti.
Della fame di cambiamento per il trionfo di una società che per dirsi migliore di quella fascista doveva rendersi meno iniqua prima di tutto sul piano economico parla principalmente il primo gruppo di queste testimonianze – grosso modo quelle dei nati fino al 1940. Della guerra che portò qualcuno a fare l'esperienza partigiana e della liberazione che in questo paese – il solo insieme alla cittadella rossa di Irsina – fu sancita dalla "festa crudele", l'uccisione del segretario del fascio cittadino. E poi, distesamente, delle grandi lotte bracciantili e della loro spietata repressione e infine della riforma agraria – l'unica riforma di struttura della nostra storia repubblicana – e del modo clientelare con cui fu applicata.
Fra gli appartenenti alla generazione successiva il tema dominante è invece decisamente l'emigrazione, la grande risorsa delle popolazioni povere. La prima emigrazione è protesta politica, fuga dal bisogno e mezzo per procurarsi il denaro per fare una vita migliore una volta tornati in paese. Quella dei più giovani – diciamo dei nati nel dopoguerra – è invece ripudio dell'angustia e dall'arretratezza del mondo contadino, ricerca della modernità e viaggio nello spazio, nel tempo e in società diverse da quella d'origine.
Oltre a un lavoro dignitosamente retribuito – negli anni sessanta la paga si aggirava sulle seicento lire al giorno in paese, sulle millecinque-duemila a Milano o Torino – la nuova generazione cercava anche altro: l'indipendenza dai padri e dai loro valori, orizzonti di vita più vasti, un accesso personale a quella modernità che assegnava al Sud solo il ruolo di consumatore di vasche Moplen e brillantina Linetti.
I più finirono nei cantieri edili, nelle fabbriche, nei grandi laboratori artigianali. All'inizio adibiti alle mansioni più basse, pesanti e pericolose, quasi tutti migliorarono nel corso del tempo la loro posizione. Questo ricordo affiora con orgoglio e commozione in molte testimonianze; a differenza di quanto succedeva in paese la dedizione, l'impegno e le capacità venivano spesso premiate. Emigrare significa anche esporsi a umiliazioni e pregiudizi, ciò è ricordato anche, ma senza vittimismo.
Insieme a queste ci sono poi storie di successo di chi, partendo dal nulla, è riuscito a creare in paese significative realtà imprenditoriali nel campo dell'edilizia, delle costruzioni meccaniche, della lavorazione del legname, delle trasformazioni lattiero-casearie, delle produzioni vivaistiche. Ma i successi più importanti, quelli che contano veramente, li hanno raggiunti tutti gli intervistati nella sfera privata crescendo bene i figli, dando loro una casa confortevole e l'opportunità di fare buoni studi.
Gli intervistati sono in maggioranza uomini, ma spesso sono state le donne, le madri soprattutto, le ideatrici dei progetti di successo o della loro realizzazione.
Chi vorrà sapere come i lucani nati nel cinquantennio 1920-1970 vedevano se stessi e il mondo che li circondava troverà sicuramente utile la lettura di questa raccolta di storie fatta con tanta passione e sacrifici personali dal curatore.
Peppe Lomonaco
Se hai bisogno, dimmelo. Storie registrate di spiazzante umanità
Edizioni Motola, 2016
pagg. 352, 15 euro